(pubblicato sul quotidiano “il Giornale” dell’11 Gennaio 2019)
Eravamo nel 1942,ed i ritmi e le modalità della vita erano tutti scanditi dagli eventi bellici. Tutto,dai bisogni giornalieri,al lavoro ed allo svago era ormai strettamente connesso alla guerra in atto con conseguenti disagi,sebbene non ancora al limite della sopportazione.
IL PANE: di colore scuro,era di farina integrale ma di sapore ancora accettabile,soggetto al tesseramento nella misura di 200 grammi a testa che,magari al Nord era già una razione modesta,ma al Sud era senz’altro insufficiente per la normale alimentazione meridionale caratterizzata da forte consumo di pane che si accompagnava alla diffusa usanza degli intingoli oleosi di cui i meridionali sono molto ghiotti.E lo stesso si può dire della pasta,strettamente razionata,che,notoriamente, era ed è l’alimento principe dei meridionali.
LA FARINA : razionata e scadente.
LA PASTA : razionata, era a volte,immangiabile,quando era troppo ricca di fibra,come la “Pasta Vincere”. LA CARNE : anche questa razionata,e soggetta a lunghe code per l’acquisto,era dosata e limitata ai pezzi meno pregiati,con esclusione degli ossi che,peraltro,andavano a ruba per poter preparare i gustosi brodi che le nostre mamme sapevano ben accoppiare ai tagliolini fatti in casa.
IL PESCE : era l’unico alimento non razionato la cui vendita, però,era limitata un tanto a testa dei facenti coda,ma che,se ti andava male quel giorno,prima o poi ti poteva capitare di riuscire ad acquistarlo senza penose file come per la carne. Se poi ti recavi a Schiavonea ed aspettavi sulla spiaggia il ritorno delle barche cariche di pescato ne potevi comprare tanto,freschissimo,ed anche a prezzi non esagerati.
FRUTTA E VERDURA :in abbondanza e senza limiti,e nel mio paese,Corigliano,compensavano,sufficientemente,tutto il resto.
L’OLIO D’OLIVA:sebbene strettamente razionato,a Corigliano non costituiva un grosso problema,poiché,come dice lo stesso nome,Corigliano trae origini dal greco choros=paese ed elianos= ulivo volendo significare “paese degli ulivi”,il che giustifica la grande abbondanza di quel condimento che non mancava in ogni casa,per quanto povera potesse essere.
ABBIGLIAMENTI: una volta esaurite nei negozi di stoffe tutte le scorte di tessuti,si dovette far ricorso alle biancherie di casa da cui si riusciva a ricavare dei decorosi capi,come quei vestiti estivi da uomo,ricavati dalle lenzuola di lino della nonna. Elegantissimi vestiti di un tenue color bianco avorio,da fare invidia a quelli di cui si faceva sfoggio,nell’anteguerra,sui più famosi lungomare del mondo,come Nizza e Montecarlo. Per l’abbigliamento invernale si ricorreva spesso a…”rivoltare” vecchie giacche e vecchi,soprabiti che davano l’impressione di vestiti di nuova confezione che,però,era tradita dal vecchio taschino che nell’operazione di rivoltamento finiva a destra,e neppure un bravo sarto riusciva a mascherare l’opera di sutura.
LE SCARPE:finite le scorte che i negozianti si erano premurati a nascondere prima dell’inventario,e vendute,poi,al mercato nero,erano diventate cosa rara,da calzare con massima cura,e affidate più volte al calzolaio per la risolatura,fino a che non fu più possibile reperire le suole e si dovette ricorrere a pezzi di pneumatici che,più di farti camminare,ti facevano “ruzzolare”.
LE SIGARETTE : pur essendo razionate,arrivò il momento che sparirono dalla circolazione per mancanza del tabacco che il Monopolio di Stato destinava tutto alla produzione di sigarette per l’Esercito,tra le quali la più diffusa era la MILIT,una sigaretta di gusto ed aroma repellenti,al punto da meritarsi l’appellativo, affibiato da soldai burloni, :“Merda Italiana Lavorata In Tubetti”. Del resto non si poteva pretendere di più da una sigaretta che, ai soldati,costava un…soldo (5 centesimi),laddove le sigarette civili più diffuse,tra operai e contadini,erano le “Popolari”che costavano il doppio,2 soldi (10 centesimi),e non è che fossero tanto più gradevoli delle MILIT.
E fu il momento che i più accaniti schiavi di quel vizio furono indotti a fumare di tutto,dalle bucce di patate essiccate alle foglie di vite ingiallite,miscelate a vecchie cicche di sigarette. IL CAFFÈ:quell’aroma e quel sapore furono,per oltre tre anni, un sogno irrealizzabile (fino,all’arrivo degli americani).
Lo Stato provò in vario modo a sopperire con i “surrogati” che erano assurdi estratti di chissà che cosa,ma con scarsi risultati. Soltanto l’orzo abbrustolito accontentò noi bambini,per il solito “Caffellatte” del mattino,ma noi non eravamo gli habitués della tazzina del caffè prima della sigaretta,destinati a soffrire in modo indicibile in mancanza dell’accoppiata caffè-sigaretta.
Mio padre,invece,fu vittima di quella sofferenza e,un giorno, quasi non credeva ai suoi occhi quando Urania,una mia zia che viveva a Noicattaro,vicino a Bari,gli portò in dono un mucchietto di chicchi di caffè.All’inizio stentò a riconoscerli perchè erano molto più piccoli di quelli che conosceva,e di forma in prevalenza todeggiante.Subito mia madre rispolverò il vecchio tostacaffè a manovella e si diede a ripulire la gloriosa caffettiera “napoletana” ormai,da anni,in disuso.E,nel frattempo,la zia,più del solito ospite gradita,spiegava come era venuta in possesso di quei semi. Confinante col suo vigneto,c’era la vigna di un reduce della guerra per la conquista dell’Etiopia che,probabilmente,aveva portato quei semi dall’Africa e,pur scettico sulla possibilità di un loro attecchimento in zona non equatoriale,provò a seminarli e, sorprendentemente,riuscì a coglierne i frutti e,chissà da quanto tempo,ormai,sorseggiava segretamente quel nettare.
Avvenne che il vento,o un uccellino che aveva ingerito quella bacca,provvedesse ad inseminare la terra di mia zia che si trovò nella vigna due cespuglietti di caffè.E mio padre visse alcuni giorni di gioia avendo potuto appagare,anche se per poco,un desiderio diventato da tempo “inappagabile”.
LO SVAGO:nonostante tutte le ristrettezze e tutte le privazioni, non si rinunciava agli svaghi che,prevalentemente,erano le rappresentazioni cinematografiche che non mancavano mai, malgrado i bombardamenti che ostacolavano il normale corso della produzione e la spedizione a mezzo ferrovia nei vari centri di provincia delle “pizze” da proiettare e nonostante le varie interruzioni di corrente che,con molta frequenza disturbavano la normale proiezione dei film.Le sale erano sempre affollate e i notiziari del “Cinegiornale” erano il mezzo di comunicazione di massa più diffuso dopo,beninteso,il giornale radio che,però, era privo di immagini e,pertanto,meno ricco di emozioni.
E le sale cinematografiche diventavano anche il luogo che dava adito ad incontri e scambi di opinioni e,spesso,erano occasione di consenso alle notizie del cinegiornale,mediante dei fragorosi applausi,oppure occasione di dissenso favorito,dal buio della sala che impediva l’individuazione degli autori di quei fischi. E quelle sale erano anche il luogo dove poter assistere in diretta agli spettacoli teatrali delle varie compagnie che battevano la provincia italiana onde,appunto,evitare i grossi centri diventati ormai pericolosi obiettivi di bombardamento.
E ti poteva capitare che assistevi a recite di un certo livello,con attori di grido,di commedie famose come “Due dozzine di rose scarlatte”,oppure “La cena delle beffe”. Ma non mancavano le compagnie d’avanspettacolo che si esibivano a ridosso della visione cinematografica,in più modeste rappresentazioni,per un pubblico di bocca buona e comunque cariche di un umorismo talvolta estemporaneo,spesso dialogato, praticamente,tra attori e spettatori.
Ricordo una sera che la sala era piena di militari italiani,di stanza al Villaggio “Frassa”,in maggioranza settentrionali,che un soldato, capì dall’accento,che la “soubrette” era romagnola e le chiese di dov’era,e lei,tutta contenta : shon di Brisighella.Perchè si shente? “Si shente e si vede anche” ribadì il soldato,aggiungendo: “She vuoi la donna bella,devi andare a Brishigella,dice un antico proverbio romagnolo”.E nella sala scoppiò un fragoroso applauso.
E lei,di rimando : “ma lei di dov’è ?
– “Shon di Bagnacavallo,in provincia di Ravenna,eshattamente come lei”. Beh,allora shiamo …a cavallo”. E quella sera non so come andò a finire,se proseguirono…”a piedi” oppure… “a cavallo”.
Anche questo spirito povero era ironia,e non si può negare che aiutava ad alleviare le ambasce del triste e tragico momento.
Ernesto Scura.