Ho letto con molta attenzione l’articolo apparso pochi giorni fa sul blog in cui si paventava la pericolosità di un’Italia federata al tempo del coronavirus, trovandomi d’accordo su alcune idee ma completamente contrarie su altre. Avere un’Italia formata da 20 regioni autonome e indipendenti (che in modo rocambolesco cercano di risolvere l’emergenza del covid) sarebbe un disastro per la nostra nazione e soprattutto per il Sud. Ma l’autonomia non è nata pochi anni fa come si è voluto far intendere, bisogna andare molto indietro tanto da avere come protagonisti, attori diversi . Il covid-19, in tutta la sua drammaticità, ha fatto emergere molti errori di una politica liberale che ha contraddistinto la nostra penisola in questi ultimi venti anni. 

Dietro la parola  autonomia, come nei migliori romanzi di clé, molte regione hanno saputo nascondere politiche privatistiche che hanno portato( persino la nostra regione) in nome di un oculato controllo della spesa pubblica, a tagliare, ridurre, chiudere strutture pubbliche che avevano portato benessere alla popolazione, facendo cresce il PIL nazionale in modo esponenziale. In nome di un’autonomia regionale, in Calabria si è assistito alla chiusura di grandi ospedali, al taglio indiscriminato di tratte ferroviarie, e contestualmente alla nascita di strutture sanitarie privatistiche e al fiorire di innumerevoli società di trasporto in sostituzione delle vecchie linee ferroviarie. In un’ Italia da prima repubblica tutto ciò non sarebbe successo. La centralità statale aveva sempre garantito, a tutto il popolo italiano e in nome di un’Italia unica e indivisibile, un benessere diffuso su tutto il territorio nazionale. Chi non ricorda le grandi battaglie contro le gabbie salariali, la costruzione delle case popolari, la realizzazione di autostrade nazionali? Come dimenticare i grandi campioni di Italia quali l’Enel, la Sip, l’Ansaldo che subito dopo gli anni ‘90 vengono accusati di una gestione statale dispendiosa e quindi avviati verso una privatizzazione salvifica?  La medesima filosofia politica la subiscono le nostre regioni. Spinti da ideali di indipendenza statale negli anni ’90 lo Stato centrale viene accusato di dilapidare i soldi delle regioni, al grido di Roma Ladrona si intravede nell’autonomia la panacea di tutti i disastri finanziari in cui l’Italia versava in quel periodo. Il 7 ottobre 2001, con un referendum nazionale, si chiedeva agli italiani il loro consenso per modificare il Titolo V della parte seconda della nostra (santa, giusta e equilibrata) Costituzione. I sì vincono con il 64%. Da questo momento in poi verranno varate, approvate legge quadro, decreti delegati che, partendo dalla cancellazione della parola Mezzogiorno dall’art.119 della costituzione ed introducendo il concetto di federalismo, daranno vita ad un’autonomia differenziata che oggi si presenta allorquando pericolosa. Molto pericolosa e dannosa per le regioni del Sud (come è stato giustamente scritto) ma non perché il Nord cattivo vuole approfittare dei poveri fratellastri del Sud, ma perché i cattivi politici del Sud dal 2001 fino ai nostri giorni, in questi 20 anni di storia federale, si sono dimenticati dei loro elettori non presentandosi mai ai vari incontri in commissione bicamerale, per discutere della riforma federale. Il dramma di tutta questa storia travagliata, però, non sarà l’autonomia differenziata, ma  il fatto che nessun politico del Sud ( sia di destra che di sinistra) abbiamo mai richiesto l’applicazione e la messa in atto dei livelli essenziali di prestazione, così come stabilto dalle legge n.42 del 2009. Approvando i LEP si sarebbero garantiti servizi essenziali quali: sanità, trasporto, istruzione, formazione, assistenza sociale che lo Stato avrebbero dovuto assicurare su tutto il territorio nazionale e ancor di più su quello regionale. Purtroppo nessun politico del Sud ( figuriamoci del Nord) ha mai richiesto la messa in campo di questo strumento fondamentale, nato per evitare forti sbilanciamenti economici nel panorama nazionale. Oggi la ripartizione dei fondi nazionali per le regioni, città, e comuni avviene su due principi: La longevità di vita e la spesa storica. Ciò significa che in quelle regioni in cui si vive di più e che hanno sempre garantito importanti servizi alla popolazione, avranno maggiore fondi rispetto ad altre che non rispettano questi parametri. In poche parole un giovane del Sud ha poche speranze di vedere la sua sanità migliorare in quanto al sud si muore prima e Reggio Calabria che ha la stessa densità demografica di Reggio Emilia, ma con un numero inferiori di asili, percepirà contribuiti 20 volte inferiori rispetto a quelli del suo omonimo in Emilia ( nel 2017 Reggio Emilia percepirà 80 milioni di euro, Reggio Calabria 80 mila euro). Forse è giusto così? Forse sarebbe giusto chiedere alla popolazione regina di fare meno  figli, tanto gli asilo nido non aumenteranno mai? Tutto ciò non sarebbe successo se i nostri rappresentati invece di sonnecchiare dietro fasulli problemi, avessero definito i livelli minimi assistenziali a cui ogni regione avrebbe dovuto aspirare con l’aiuto dello Stato. Quando finirà l’emergenza del codiv-19 io mi auguro, per il bene del nostro Sud e per evitargli un futuro veramente pericoloso, che tutti i politici non solo smettano di parlare di autonomia in-differenziata, dando più centralità allo Stato, ma soprattutto che i politici del Mezzogiorno facciano gli interessi del territorio per il quale sono stati votati, senza accusare i loro colleghi del Nord, che in fin dei conti ( anche se a torto) stanno facendo ( e direi molto bene) il lavoro per cui sono stati votati ricevendo la fiducia dei loro cittadini.

Gianluca Capristo.