Chàire, oh Archiepìscope, par’emìn filéis, metà thàrsus cài elpìdos se dechòmetha en te emetéra pòlei Rusìano te byzantine
Salve, Arcivescovo, sei il benvenuto tra noi, ti accogliamo con fiducia e speranza nella nostra città di Rossano la bizantina.
A margine dell’accoglienza fattaLe, “con fede, disponibilità, amore e obbedienza”, dall’Amministratore Diocesano, il saggio e fattivo don Antonio De Simone, Le porgo il benvenuto nella lingua greco-bizantina di Rossano, scritta e parlata fino al 1460, segno “della millenaria storia cristiana di Rossano” e di un’identità culturale e valoriale peculiare, originale e forte, che ancora dà prestigio alla città e coesione sociale di appartenenza alla sua gente.
Le parole che rivolgo a Lei, 63° Arcivescovo di rito latino dal 1460 (ma 33 o 36 sono stati gli Arcivescovi-Metropoliti di rito greco-bizantino dal 1088/89 fino al 1459 e tanti, prima, Vescovi dal 597, verosimilmente anno della nascita della Diocesi di Rossano), vorrebbero essere la voce di un complesso arcipelago di sensibilità e valori etici, che si dichiarano laici o agnostici o atei o senza chiesa, autonomo ma non in contrasto con l’area dei testimoni di fede teista e cattolica. Specificamente spero di rappresentare quanti hanno lasciato “la riva sicura” (Papa Francesco) della religiosità dei padri e sono attratti da quella della ragione critica squarciatrice delle tenebre dell’ignoranza, della superstizione, del regime dei privilegi. E intanto questi sono soltanto incerti, dubbiosi, interroganti, in tensione e in cammino verso la Verità (“pellegrini della Verità”), in mezzo al guado, esposti ad ogni possibile esito. Anche questi hanno una fede. Una fede umanistica nella “dignità e centralità” dell’uomo, che è persona ed è cittadino, avente valore in sé e “fine in sé” (Immanuel Kant). Una fede nella positività del confronto e dell’impegno personale e associato tra-con-per gli altri, nella capacità di cambiare la società e la storia, nella possibilità di costruire un mondo nuovo e migliore, dove il dialogo sostituisca l’intolleranza, la giustizia sia fondatrice della pace, la fratellanza si coniughi con l’uguaglianza, la liberazione dal bisogno emancipi dalle violenze delle vecchie e nuove povertà. Una fede differente, ma non dissimile, da quella dei teisti cattolici, che Lei definisce (e sono d’accordo) “ricchezza e nutrimento per la convivialità che insieme desideriamo realizzare”; eppure, in quanto diversa, è ancora percepita come qualcosa che allontana o estranea o confligge con quella. E tale lontananza-estraneità-ostilità continua a indebolire i possibili comuni percorsi di costruzione della “civiltà dell’amore” e di una società liberante e a misura d’uomo. E’ una debolezza che va a beneficio dell’attuale sistema consolidato di prevaricazione, di ingiustizie sociali, di illegalità e di corruzione dilaganti, che continua a sfornare una “casta” oligarchica di inqualificabili individui. Questo sistema perverso è o dovrebbe essere il comune avversario dei diversi testimoni e protagonisti della fede: questo ritengo di cogliere nella nuova innovativa prassi evangelica di Papa Francesco. Meno devozionismo, meno intimismo, meno formalismo, che producono spesso atteggiamenti deleganti o egoismo o familismo o disimpegno sociale o indifferenza pilatesca, e, viceversa, auspico più prossimità, più presenza visibile nella società, più testimonianza credibile e operativa, più dialogo costruttivo con le altre testimonianze affini per fare “insieme” un cammino condiviso o almeno un pezzo di strada insieme. Entro questa “vision” e questa prospettiva, peraltro indicate da Papa Bergoglio e da Lei nella sua lettera del 15 u.s, accolgo, con grande favore, il suo “impegno a camminare insieme”, a “realizzare quelle relazioni profonde, accoglienti, generose, spazio fecondo, capace di offrire brividi di comunione all’umanità”. Esprimo, perciò, l’auspicio che i portatori di fedi diverse possano ricercare le ragioni del dialogo sulle prassi di fede, possano individuare le problematiche più attuali e scottanti, possano nella reciprocità e nella fiducia vicendevole avviare un cammino di collaborazione hic et nunc, qui a Rossano e nell’area vasta della diocesi, e in questo tempo complesso, ricco di inquietudini, ma anche di speranze.
Insieme possiamo riportare le persone-cittadini alla partecipazione democratica, alla cittadinanza attiva, all’etica della responsabilità, contrastando così le patologie sociali dell’immobilismo, della rassegnazione, dello spirito di rinuncia, dell’indifferenza, della delega, prodotti dalla crisi di credibilità dei partiti, dalla cattiva politica, dai cattivi politici di professione e, quindi, anche dalla crisi delle Istituzioni e dall’essere questo nostro ampio territorio privo a tutti i livelli di rappresentanza autorevole e prestigiosa.
Insieme possiamo ricostruire il primato del bene comune e dell’interesse generale, condizioni necessarie e sufficienti per fare anche il bene e l’interesse dei singoli; e con questo riaffermare gli “exempla”, i modelli di riferimento, delle persone-cittadini esemplari per bontà, spirito di servizio, onestà, giustizia, competenza, radicamento nel territorio e tra la gente, ai quali affidare la “res publica”, nella consapevolezza, suggeritaci da Corrado Alvaro, che “la disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che essere onesti” giusti e buoni “sia inutile”.
Insieme possiamo ridare dignità, giustizia e restituzione a questo nostro territorio, che ha urgente bisogno di una ripartenza, dopo essere stato, negli ultimissimi anni, massacrato e defraudato dalla pessima politica, con prepotenza e senza ragioni, dei servizi indispensabili alla persona e al cittadino: la sanità, il tribunale, la viabilità, i trasporti, l’ambiente (il “creato”), l’igiene pubblica, uffici ecc.
Insieme possiamo ripristinare l’auto-stima e la fiducia nelle capacità dell’uomo singolo e associato di questo nostro comprensorio, la convinzione che ce la dobbiamo e ce la possiamo fare, e la speranza concreta, la quale, per non ridursi a un astratto e inconcludente moto del cuore, deve fondarsi, come ci indica Pablo Neruda, sull’ “indignazione” e sul “coraggio”: solo in questo modo possiamo contrastare la diffusa percezione di essere figli di un dio minore, di essere dei perdenti, di dovere andare via per cercare nella fuga il lavoro, la dignità, il riscatto, perché, come mi ha detto un giovane, “i Calabresi sono bravi soltanto quando giocano fuori casa”.
Insieme possiamo impegnarci a consolidare la memoria storica, la cultura e l’identità bizantine di Rossano, facendone il fondamento dell’incontro-dialogo fra i tre monoteismi del Mediterraneo (Cristiano, Giudaico, Islamico), conservandone e valorizzandone l’immenso patrimonio storico-architettonico-artistico, promuovendolo nei circuiti internazionali; e in modo specifico mi riferisco al “Codex Purpureus Rossanensis” per il quale è urgente intensificare le sollecitazioni (già e più volte fatte da S.E. Santo Marcianò e da S.E. Luigi Renzo e dallo scrivente) per il suo riconoscimento quale patrimonio dell’UNESCO (pratica avviata nel 2007) e il suo rapido ritorno a Rossano (essendo giunti al termine il suo restauro conservativo e l’esposizione al Quirinale, anche alla presenza di Papa Francesco e del Presidente Napolitano).
Insieme possiamo affrontare le problematiche e le emergenze di questo nostro territorio. Hanno una priorità assoluta il disagio, la sofferenza, la marginalità di chi non ha un lavoro, di chi il lavoro l’ha perso, di chi è sfruttato e dei tanti “invisibili” che sopravvivono nel bisogno, nell’indigenza, nella discriminazione, nella malattia, nell’isolamento, “nella fatica del vivere”, a favore dei quali la Chiesa diocesana (essa soltanto a dire il vero) è sollecita con una fitta rete di servizi gestiti da associazioni e volontari. Un debolezza preoccupante è quella strutturale dell’economia territoriale, strumentalizzata da parte di poteri forti neo-colonizzatori con l’abietto ricatto lavoro-salute-ambiente, e determinata da molteplici cause: come le pervicaci politiche anti-meridionaliste dei governi nazionali; l’irresponsabile politica dei governi regionali, più interessati al consenso che allo sviluppo locale e dilapidatori delle risorse comunitarie; l’inconsistenza e la sudditanza della rappresentanza politica territoriale nelle Istituzioni sovra-comunali; la grave carenza del sistema della viabilità e dei trasporti, che rende l’area periferica, isolata, insicura; il deficit della cultura d’impresa sociale e solidale; la difficoltà di produrre ricchezza e occupazione, di attrarre investimenti pubblico-privati e di espandersi da parte dei settori pur attivi dell’agricoltura, del turismo, della piccola impresa del territorio; la persistente volontà delle amministrazioni comunali di guardare soltanto al proprio “particulare” municipalistico e di camminare divisi e in ordine sparso, tanto che quest’area vasta non ha forza contrattuale e non sa proporsi con un’unica “vision”, con un unico progetto programmatico, con un’unica lingua, con una classe dirigente di qualità rappresentativa; la degenerazione dell’assistenzialismo che diseduca alla furbizia, alla corruzione, al voto di scambio; l’azione pervasiva, intimidatrice, parassitaria della ‘ndrangheta, benché da Papa Francesco scomunicata e condannata come peccato oltre che come reato. E, infine, la causa più drammatica dell’immobilismo e della perdita di vitalità di questo nostro territorio è rappresentata dalla perdita del più grande capitale prodotto da questo territorio, quello umano, quello dei giovani, quello delle competenze e delle professionalità, quello delle intelligenze e dei talenti, che sono in “diaspora”, in un “esodo” biblico, in una fuga inarrestabile per il mondo: una perdita e un dissanguamento che impoveriscono la nostra terra e la condannano a non avere futuro, perché senza giovani non avremo futuro.
Non è e non sarà facile risolvere tali problematiche. Noi possiamo provarci. Possiamo provarci insieme in un solido appassionato patto “per”, ma anche “tra” e “con”, il territorio e la gente. La storia ci insegna che gli uomini e i popoli, quando rallentano o fermano o regrediscono il loro cammino, quando cadono in preda alla rassegnazione e al crudele destino, manifestano – consapevolmente o non – un irrefrenabile bisogno di guide autorevoli e credibili, di profeti di speranza, di protagonisti dall’alta tensione etica e spirituale per riprendere il cammino della più esaltante avventura che è la vita e per lasciare tracce del loro esserci “qui ed ora”.
Caro Arcivescovo, La ringrazio per la sua attenzione, spero di dialogare con Lei prossimamente e de visu e, intanto, Le porgo il benvenuto e i più cordiali saluti.
Rossano, 28 luglio 2014
Francesco Filareto