“Vedo nel Fight Club gli uomini più forti e intelligenti mai esistiti. Vedo tutto questo potenziale. E lo vedo sprecato. Un’intera generazione che pompa benzina, serve ai tavoli, o schiavi coi colletti bianchi. La pubblicità ci fa inseguire le macchine e i vestiti, fare lavori che odiamo per comprare cazzate che non ci servono.
Siamo i figli di mezzo della storia, non abbiamo né uno scopo né un posto. Non abbiamo la grande guerra né la grande depressione. La nostra grande guerra è quella spirituale, la nostra grande depressione è la nostra vita. Siamo cresciuti con la televisione che ci ha convinti che un giorno saremmo diventati miliardari, miti del cinema, rock star. Ma non è così. E lentamente lo stiamo imparando. “
Fight Club, basato sul capolavoro assoluto di Chuck Palahniuk, è un piccone conficcato nell’encefalo di chi è nato negli ultimi 30 anni. È la rappresentazione di flotte di ragazzi affetti da bipolarismo sociale, che vivono a loro malgrado in una contemporaneità complessa che chiude gli occhi e non da vie di espiazione. Sostenere che le generazioni moderne sono fatte tutte della stessa pasta, tra drinks e followers, tra libri mai letti sui lettini al mare e postati in rete, tra vizi, ottenebramento e desolazione non è lo specchio del problema, ma in alcuni casi si. In ordine sparso: andare via da Rossano per accrescere le esperienze e le capacità è una medaglia al petto per chi lo fa, molti il priveè manco sanno cosa sia e i sacrifici ci sono, e anche tanti. Ciò che, però, appare imperdonabile è che la gioventù non si guarda allo specchio e non fa i conti con se stessa.
Questa non vuole essere un’apologia e né tanto meno uno stucchevole flusso premonitore, ma alcune cose vanno dette in faccia. Affermare che si tratta di una generazione persa che ha tutto ma è sola, che vuole tutto ma non raggiunge niente, che ostenta sicurezza e baldanza quando invece è inerme e al buio non è del tutto una menzogna. Come già riportato viviamo in una società schiacciata dal consumismo, dal capitalismo imperante e dalla crisi dei valori. Una secolarizzazione laica che inevitabilmente ci fa cozzare con chi era giovane prima di noi. I nostri nonni vivevano con un sogno che era quello del benessere, ma quello più sostenibile e reale, affrontavano sfide maggiori delle nostre, dentro case diroccate, con pollame nelle stanze e con la schiena spaccata in due per le giornate nei campi. I ragazzi di oggi, con mezzi e cultura, vivono con l’ossessione del benessere: macchina nuova, 60 pollici in salotto e comodità usa e getta. Il crearsi una famiglia non è più la priorità. Purtroppo, i sogni sono più puri delle ossessioni. Si tratta di una generazione viziata da questo benessere che ha avuto la sua esplosione nell’Italia degli anni 80, quella craxiana della Milano da bere.
Trenta anni dopo si è drogati ed assuefatti da tutto questo e il passo successivo (in molti casi è cosi, non scandalizziamoci) e andare avanti con la pensione di nonno e nonna o di mamma e papà. Quando questa bolla di fango imploderà dovremmo guardarci tutti in faccia e scendere dai piedistalli. Ognuno di noi lotta ogni giorno una battaglia intima, sensibile e personale tra ciò che si è e ciò che realmente si vuole essere, e di ciò bisogna avere sommo rispetto. Si è cresciuti con la tv commerciale anni 80-90-2000 che ci ha imposto tutto, anche ciò che rispetta le idee di gusto. L’approccio tra due ragazzi è mediato dalle esterne di Uomini e Donne, la musica da ascoltare è quella di X Factor e di Amici, i Pokemon esistono e li devi seguire e catturare con lo smartphone e i rapporti umani si possono ricucire aprendo una busta. Ma la vita è fuori da quegli schermi e la realtà è un palo in mezzo agli occhi ben assestato. In conclusione, quando veniamo definiti vacui è come un pugno nello stomaco. Fa davvero male, ci fa provare dolore, questo si odia e si fa finta di vivere in atarassia.
Nietzsche scriveva, prima delle tre metamorfosi dell’anima per presentare l’oltre uomo, in questo modo: “Noi abbiamo inventato la felicità” dicono gli ultimi uomini e strizzano l’occhio. Essi hanno lasciato le contrade dove la vita era dura: perché ci vuole calore. Ammalarsi ed essere diffidenti è ai loro occhi una colpa: guardiamo dove si mettono i piedi. Folle chi ancora inciampa nelle pietre e negli uomini!”. Gli ultimi uomini erano i peggiori, perché avrebbero anticipato la fine. “Si avvicina il tempo in cui l’uomo non generà più stelle. Si avvicina il tempo dell’uomo più disprezzabile, quello che non sa disprezzarsi”. Guardiamoci allo specchio e focalizziamo sul volto.
Josef Platarota